IV

LA CRISI DEL ’19 E LA POESIA «IDILLICA»

L’attrito complicato ed acerbo di questo primo momento di delusione, mescolato ad impeti volitivi, a bruschi risentimenti di protesta, a movimenti teneri e affettuosi (quali corrono e si intersecano fra le due canzoni patriottiche e le due canzoni rifiutate) si riverbera da una parte nella crescente meditazione filosofico-morale dello Zibaldone che si fa luce fra i pensieri letterari ed estetici piú frequenti nelle prime pagine non datate, ma precedenti al gennaio del ’20, e punta sul nascente e abbozzato sistema della natura e delle illusioni (fra raccordi con il mondo generoso dei classici e la persistenza ancora della prospettiva religiosa, ma in chiaro declino di adesione personale), dall’altra nello scavo intimo e piú direttamente e sensibilmente autobiografico degli appunti raccolti nei Ricordi di infanzia e di adolescenza, che, nella primavera del ’19, venivano avviando una ricerca di diario romanzesco di tipo wertheriano su cui piú volte il Leopardi tornerà senza mai realizzarlo.

Quella folta e disordinata congerie di appunti è solcata, fra passato e presente, da rapidi accenni alla sua passione antitirannica ancora riferita all’avversione antimurattiana del 1815 («scelleratissimo sappi – al Murat – che se tu stesso non ti andasti ora a procacciar la tua pena io ti avrei scannato con queste mani ec. quando anche nessun altro lo avesse fatto ec. Giuro che non voglio piú tiranni»[1]), ma è dominata da sensibilissime delineazioni di situazioni sentimentali, da scene di contemplazione della vita popolare, attraenti nella loro schiettezza e repellenti a certo acerbo moralismo e all’ipersensibilità pietosa del giovane (il fertile brano sulla piazzetta vista dalla finestra del palazzo mentre vi scherzano due giovanotti e voci vengono dal chiuso delle case e nuovi personaggi intervengono con le loro parole ingenue e grossolane finché la pioggia scioglie questa breve animazione che aveva rallegrato e mosso l’animo «malinconichissimo» dello spettatore[2]), da velocissimi e improvvisi ritratti di fanciulle popolari, vagheggiate amorosamente e còlte nella loro mobilità e ingenuità giovanile («suo guardare spesso indietro al padrone allora passato ec. correr via frettolosa con un bel fazzoletto in testa vestita di rosso e qualche cosa involta in fazzoletto bianco in una mano ec. nel suo voltarsi ci voltava la faccia ma per momenti ed era instabile come un’ape: si fermava qua e là ec.»[3]), da cui il giovane poeta ricava sogni notturni, amorosi, ardenti e casti, riflessioni sull’amore e sulle «consolazioni» del ricordo e del sogno: «finché tornandomi lasciata troppo tardi la compagnia e senza speranza la rividi pure all’improvviso, sogno di quella notte e mio vero paradiso in parlar con lei ed esserne interrogato e ascoltato con viso ridente e poi domandarle io la mano a baciare ed ella torcendo non so di che filo porgermela guardandomi con aria semplicissima e candidissima e io baciarla senza ardire di toccarla con tale diletto ch’io allora solo in sogno per la primissima volta provai che cosa sia questa sorta di consolazioni con tal verità che svegliatomi subito e riscosso pienamente vidi che il piacer era stato appunto qual sarebbe reale e vivo e restai attonito e conobbi come sia vero che tutta l’anima si possa trasfondere in un bacio e perder di vista tutto il mondo come allora proprio mi parve e svegliato errai un pezzo con questo pensiero e sonnacchiando e risvegliandomi a ogni momento rivedevo sempre l’istessa donna in mille forme ma sempre viva e vera ec.»[4].

Il giovane reagiva cosí alla sua forzata solitudine e alla frustazione pratica dei suoi intensi desideri di vita con questi «piaceri dell’immaginazione», con questa ricca e acutissima vita della sensibilità, proiezione concreta della sua maturante idea del valore delle illusioni riportate dall’ambito eroico e pubblico entro una piú privata forma di compenso della sensibilità «poetica» e cioè etimologicamente creatrice di sensibili piaceri del cuore e della mente, coinvolti in una prospettiva di alto edonismo e basati su di una sottile ed acutissima esplorazione della realtà e dei suoi riverberi e sviluppi fantastici e sentimentali.

Questa onda di sensazioni e impressioni-espressioni dell’animo sensibile (non mai di una prospettiva veramente mistica e di una rêverie totalmente disimpegnata dalla realtà e dai suoi agganci piú essenziali) costituisce la base della svolta poetica del ’19, in quegli «idilli» (come il Leopardi li chiamò fra il ricordo degli idilli classici e di quelli per lui cosí interessanti del preromantico Gessner) che coprono momentaneamente la lacerazione della delusione storica e personale, il trauma del fallito tentativo di fuga nell’agosto di quell’anno, per intrecciarsi, come vedremo, con riprese della prospettiva pubblica, con nuovi sgorghi piú complicati della stessa tensione idillica e idillico-elegiaca fra ’20 e ’21, e con l’imponente elaborazione del sistema della natura e delle illusioni, risposta alla sua crisi di valori positivi reali e di possibilità di coincidenza del «vero» con la vita sentimentale, attiva, eroica e poetica.

Fra vari «argomenti» ed abbozzi – che spesso segnano il margine di vicinanza piú esterna ad un idillismo pittoresco e realistico-letterario nella sua maggiore autonomia preparatoria rispetto all’elaborazione ed utilizzazione che il Leopardi ne faceva nella sua piú vera prospettiva poetica – prendono diverso spicco – pur essi con gradazioni ben percepibili di intensità e centralità – i tre componimenti di quell’anno: Il sogno (poi Lo spavento notturno e infine frammento XXXVII), Alla luna, L’infinito.

Piú vicino a certa convenzione tradizionale, popolareggiante elegante, il primo, con i suoi due pastori e il loro dialogo scalato sulla diversità delle loro voci (piú ingenua e poetica quella di Alceta, giovanissimo e attratto dal favoloso sogno della luna caduta sul prato e spentasi come un carbone immerso nell’acqua, e quella saccente, ironica, sufficiente di Melisso, uomo maturo e ragionevole che deride quel sogno e lo riporta alla realtà) e tuttavia – pur, ripeto, nell’eccesso mimetico del linguaggio che arieggia sapientemente modi e costruzioni popolari – non privo di note sottili e sensibili. Piú personale e vivo nell’impostazione del tema del «piacere» della «ricordanza» (e proprio La ricordanza era il suo primo titolo, cambiato solo nel ’31), il secondo piú chiaramente si addentra – con la sua elegante e gracile trama fra tenerezza portata sino ad un prezioso patetismo («ma nebuloso e tremulo dal pianto / che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci / il tuo volto apparia...») e delineazione sensibile di vaghe immagini consolatrici, appoggiate, l’una e l’altra, a chiari supporti e stimoli classico-settecenteschi – nella prospettiva personale (via i pastori, e il compiacimento, di secondo grado, delle attrazioni favolose e poetiche di un mondo primitivo risentito in una forte coscienza letteraria-aristocratica) dei «piaceri dell’immaginazione» surroganti i piaceri reali che non si trovano o che il personaggio-poeta non può trovare nella situazione della sua vita bloccata, e connessi con una propria presa di coscienza poetico-sensistica del proprio stato: sicché il quadro pittoresco vive già qui in funzione di una lucida esperienza e conoscenza della sensibilità del poeta e delle sue risorse di piacere, come è quella appunto della dolcezza del ricordo anche quando esso rievoca un passato doloroso in un presente doloroso ugualmente.

Ma al culmine di questa tensione di singolarissimo «idillio», tutt’altro che semplicemente e facilmente evasivo e da «ultimo pastorello di Arcadia», L’infinito – che non ebbe bisogno di correzioni sostanziali, dopo la sua stesura definitiva (come invece avvenne per Alla luna, integrata nel ’35 da due versi che ridimensionano i limiti della giovanile valutazione tutta «grata» del ricordo delle «passate cose» anche se «triste»: «nel tempo giovanil, quando ancor lungo / la speme e breve ha la memoria il corso») – esprime perfettamente e centralmente questa poetica degli «idilli» proprio in quanto il centrale piacere dell’infinito si presenta non come uno sconfinamento mistico-religioso né come una rêverie pittoresca ed arcadica, ma come la salda, lucida, intensa, presa di coscienza poetica (ma tale solo perché implicante sentimento e pensiero) di un piacere supremo dell’immaginazione umana e personale («io nel pensier mi fingo») contrapposto alla limitatezza dei piaceri concreti e particolari, ma, come essi, piacere solido e sensibile («caro» ... «dolce») tratto (come spiega una massa ingente di pensieri dello Zibaldone del ’20-21 che à rebours concorrono alla definizione di quella nozione del piacere dell’infinito[5]) dall’animo intero nella sua esperienza e conoscenza di se stesso e della vita umana. Sicché la musica perfetta di quell’itinerarium in infinitum nasce da una presa di coscienza severa e dolce (e non dunque, ripeto, da un abbandono mistico turbato da intrusioni intellettualistiche come parve al De Sanctis) di un’«avventura»[6] profonda dell’animo e del pensiero, svolta in un sobrio, essenziale ritmo che ripercorre i gradi di quella conoscenza poetica e riassorbe potentemente in sé suggestioni e impressioni visivo-acustiche (e le loro pause ed assenze), sollecitate dallo scatto fulmineo della visione-limite («la siepe») che funziona come molla della visione interiore e pur tutta sensibile, mai scaduta in dispersione effusiva o pittoresca. Lo stesso finale perciò non è sconfinamento mistico e sognante, ma un saldo possesso terminale di questa suprema dimensione interna di piacere che ha arricchito e approfondito l’esperienza del poeta e lo ha dotato – di contro a tante miserie e fallimenti pratici – di una singolare felicità, mai sganciata dal denso processo conoscitivo-poetico della sensibilità e del pensiero fra di loro indissolubili, portato avanti nella poesia e nella riflessione analitica dello Zibaldone nel loro continuo e fertile ricambio. Ché la stessa finitezza di piaceri particolari era poi legata alla crescente diagnosi, cosí coraggiosamente acuta e intellettualmente profonda, della realtà e della propria situazione esistenziale e storica, alla delusione storica del presente scaduto e corrotto, riprospettato nelle ragioni piú profonde della sua decadenza: l’opera sterilizzante di una ragione gretta e calcolatrice, ingenerosa e artificiosa che privava gli uomini delle sue risorse piú intere ed autentiche, comprovate nello stesso piacere dell’infinito, «finzione» e creazione dell’animo e di un pensiero sensibile e concreto, opposto a quella ragione mortificante e impoetica, di meschino egoismo, di inerzia, di mancanza di generose illusioni.

Quella ragione ora cosí duramente attaccata era soprattutto (come ha ben visto il Luporini) una «ragione storica», una particolare forma di ragione-raison, un proliferante cancro di razionalismo insensibile e mediocre, scettico e preclusivo di entusiasmo, di vitalità piena, di piacere e di felicità sensisticamente intesi. Ché, mentre il razionalismo geometrico e di origine cartesiana viene a perdere per Leopardi ogni capacità di sorreggere la vita, e la verità razionalisticamente intesa si rompe nelle secche dell’aridità calcolatrice ed egoistica – coinvolgendo l’infinita verità del nudo e sterile «vero» in una crisi che aggredisce anche i sistemi cattolico-razionalistici di tipo scolastico o del rilancio cattolico-illuministico –, la matrice sensistica dell’illuminismo rimane salda e feconda arricchendosi della piú sottile diagnosi del senso interno, della dialettica sensistica di piacere e dolore quale il Leopardi la riceveva sulla base dei pensatori e moralisti settecenteschi fra Montesquieu, Condillac, Verri, Beccaria, per poi approfondirla con gli acquisti degli ideologi di fine secolo e dei materialisti come Helvétius, D’Holbach e La Mettrie, con le offerte sensistico-sentimentalistiche fra illuminismo e preromanticismo in forme di esperienza filosofico-letteraria fornite da moralisti e scrittori di romanzi e di memorie autobiografiche, fra Wieland, Sterne, Goethe, Foscolo (Werther e Ortis), Rousseau, variamente fautori di illusioni piú attive e concrete della nuda verità.

E cosí, a sua volta, la natura (di cui pure già Leopardi intravvedeva, per bruschi spiragli ancor bloccati, i caratteri di parzialità nei confronti di singoli individui; si ricordino le espressioni delle canzoni rifiutate del gennaio del ’19) diveniva soprattutto un polo positivo di vitalità, una fonte di illusione e virtú generose, gentili ed eroiche, carica di energia, di risorse sentimentali, edonistiche, estetiche, attualizzate storicamente in netta contrapposizione con la saggezza inerte, con l’esistere pavido ed egoistico dell’epoca della Restaurazione, anche se il Leopardi estendeva a ritroso la sua polemica contro l’epoca «moderna» in cui la raison, artificiosa e depauperante, aveva preso il sopravvento sulla natura (e sulla ragione naturale mai veramente da lui negata), implicando un disperato tentativo di ritorno alle origini dell’uomo e alle epoche dell’antichità greco-romana e della sua ripresa rinascimentale e un altrettanto netto rifiuto di ogni esaltazione del Medioevo (per lui epoca di «ferro» e di «barbarie corrotta») e quindi da ogni consonanza piú vera con gli aspetti reazionari del romanticismo feudale o comunque mistico[7] o primitivistico-barbarico. Ché il Leopardi nel piú appassionato slancio verso lo stato naturale vede sempre in quello un modo di realizzazione della integralità delle forze umane e mai perciò esalta la barbarie e la ferinità, cosí come in poesia la sua lotta per l’inventività originale contro la pedanteria della ragione (e d’altra parte contro l’artificio della stessa immediatezza sciatta e approssimativa) non è mai esaltazione della poesia selvaggia e barbarica, priva di studio e di elaborazione[8], né assolutamente solitaria e senza volontà e dovere di comunicazione umana e di intervento nella storia del proprio tempo.

Di tutto ciò è chiara prova – come è epitome tumultuosa e grandiosa di tanti germi e intuizioni nascenti indicati da una costruzione lirico-eloquente solenne e monumentale – quella canzone Ad Angelo Mai, scritta nel gennaio del 1820, con cui il Leopardi interrompe la direzione «idillica» (recuperandone però le radici dei «piaceri dell’immaginazione» e del loro compenso al naufragio della verità razionalisticamente intesa) nella ripresa complessa di un bisogno di intervento pubblico e di una espressione sintetica di tutto se stesso in quella fase di crisi della «verità» e di iniziata erezione del sistema della natura e delle illusioni con tutta la sua forza inquieta di pensiero in movimento, di volizioni ardenti e di desolate contestazioni. Ne nacque un singolarissimo componimento poetico in cui lo sforzo costruttivo imponente e la prospettiva encomiastico-pragmatica (non importa quanto sfasata rispetto al personaggio cui si indirizzava e all’occasione stessa del testo ciceroniano[9]) vengono profilati come una nuova battaglia, data ora con le armi piú proprie della poesia e della cultura alla decadenza italiana che aveva già aggredito nelle canzoni patriottiche in forme eroicamente piú ingenue, e risultano notevolmente arricchiti e come forzati internamente (nello sgorgo delle strofe e nell’interno delle singole strofe) dalla massa di fermenti esplosivi intellettuali-poetici di cui lo stesso Leopardi ben sentiva il generale fondo aggressivo quando parlava in una lettera di poco posteriore[10] dell’«orribile fanatismo» di quella canzone (passata al vaglio della censura paterna grazie al titolo «innocentissimo» – «si tratta di un Monsignore» – ma non a quella dei censori del Lombardo-Veneto piú accorti[11], in questo caso, di Monaldo) e quando, nella dedica al vicentino conte Trissino, diceva che «ai disgraziati si conviene il vestire a lutto, ed è forza che le nostre canzoni rassomiglino ai versi funebri»[12].

La delusione storica, che sempre piú chiaramente investe l’epoca della Restaurazione con la sua triste pace («Or di riposo / paghi viviamo e scorti / da mediocrità»), si complica infatti – in un tumultuoso ingorgo mal celato nelle forme del discorso lirico-eloquente inarcato e scandito con architettonico vigore – con i grandi nuovi temi del contrasto fra natura e ragione, fra vitalità eroica e disperato senso attuale del nulla («A noi le fasce / cinse il fastidio; a noi presso la culla / immoto siede e su la tomba, il nulla»), fra vagheggiamento ardente e dolce delle antiche età e della loro riscoperta e ripresa umanistico-rinascimentale e squalifica severa e sdegnata dell’epoca moderna progressivamente corrotta dalla fredda ragione, dall’egoismo, dall’inerzia. Grandi temi avvalorati – attraverso le lettere e lo Zibaldone di questo periodo – dallo slancio verso le illusioni («il piú solido piacere di questa vita»[13]) e dall’avversione per l’arido vero nella sofferenza di inattività e di solitudine forzata fino al sentimento della noia e dello «stordimento» del «niente» che circondava il poeta[14]. E insieme stretti ad un recupero di grandi personalità attive e poetiche o attive attraverso la poesia o attraverso questa viceversa capaci di intuire la realtà di una vita sempre piú squallida e vicina al nulla, che incarnano sensibilmente questa storia di progresso verso la decadenza e la coscienza reattiva di questa e poeticamente simboleggiano i contrasti personali, storici, esistenziali che vivono nel poeta. Si pensi all’ingorgata rappresentazione di Colombo, emblematico rappresentante di un’umanità eroica, attiva e poetica, e insieme di una finale verifica della infelicità e decurtazione della scoperta dei limiti della realtà e della perdita dei «leggiadri» sogni ed errori in cui riaffiora il ricavo piú intenso della meditazione piú ingenua del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi.

Si pensi al dolce ardente vagheggiamento della figura dell’Ariosto esaltato significativamente come creatore di nuove favole, stimolo potente di vitalità e non solo di vaga immaginosità del suo tempo («nova speme d’Italia») o, viceversa, allo struggente, affettuoso fascino della figura del Tasso anticipatore di una visione desolata e coraggiosa del nulla della vita e del mondo come «inabitata piaggia» e pur protagonista disperato di un tempo meno peggiore dell’attuale in cui «il grande e il raro / ha nome di follia» e «piú de’ carmi, il computar s’ascolta».

O si pensi infine – anche a comprender meglio e la disperata diagnosi del presente «secol di fango» di fronte a cui il finale parenetico appare piuttosto delusivo e scoraggiato, e il nesso possente fra azione e poesia e la stessa limitazione di questa quanto a totale surrogato di quella (almen si dia / questa misera guerra / e questo vano campo / all’ire inferme / del mondo: il Leopardi è sempre lontano da certi enfatici appelli di «letterati» presuntuosi che fanno del poeta il solo contestatore valido dei sistemi vigenti e proprio quanto piú privo di ogni impegno che non sia solamente poetico) – alla esaltazione dell’Alfieri contrapposto alla sua «codarda etate» con il coraggio della sua guerra mossa «in su le scene a’ tiranni»: «misera guerra», comunque superiore all’«ozio» e al «brutto silenzio» dei letterati del tempo della Restaurazione. La forza aristocratica del giovane e nobile letterato si identifica con quella del suo grande maestro in un impeto eroico-individualistico il cui accento piú profondo non si perderà mai pur rafforzandosi piú tardi nella figura piú moderna dell’intellettuale «progressivo», voce di tutti gli uomini consapevoli e ad essi rivolto con severo fraterno amore democratico.

Da quell’ardente e desolato sfogo – cui il poeta adibisce un linguaggio «ardito» e vario, capace di assecondare, sulla base di una densità elaborata e sintetica, i movimenti piú grandiosi e pessimistici come quelli piú delicati e sognanti (ma mai privi di forza e di raccordo con il senso intero del linguaggio di un’umanità intera e integrale) – il Leopardi fu riportato coerentemente a riimmergersi nel denso scavo dello Zibaldone (da cui quella canzone era stata, a sua volta, sollecitata), mentre a tratti riprendeva nella poesia la via piú privata dell’«idillio» e della espressione della sua sofferta ricerca di un piacere e di un compenso ricavato dalla sua acuita sensibilità e contrastato dalla crescente consapevolezza del suo stato e della difficoltà di piaceri e compensi, esposti alla verifica della intelligenza negativa e solo possibili in una forma sempre piú elegiaca e dolce-struggente, ormai al di là dell’identificazione piú sicura e positiva del piacere della ricordanza e del pensiero dell’infinito.

Nasce cosí in una direzione costruttiva piú narrativa, ondulata, incerta, la Vita solitaria, che – in una cornice piú scopertamente pittoresca ed idillica fin troppo minuta, impressionistica, e non priva di elementi convenzionali (il casino di campagna di San Leopardo presentato come una capanna pastorale, la descrizione iniziale della «mattutina pioggia», del sole che «i suoi tremuli rai fra le cadenti / stille saetta» e della «gallinella» che «l’ale / battendo esulta nella chiusa stanza») – tenta di identificare poeticamente il piacere della solitudine e del contatto con la natura, ristoratore della sensibilità dell’uomo «stanco del mondo», come dice uno dei pensieri dello Zibaldone che si precisano intorno a questo tema centrale della poesia[15] e che lo situano pur sempre sul filo denso della esperienza leopardiana fra crisi personale e ricerca di compensi ricavati dalla sensibilità e dal «beneficio» della natura. Ma l’operazione poetica è in questo caso estremamente incerta e debole, e lo stesso tema centrale si frammenta tra un punto assai alto di evasione dalla realtà limitata in un isolamento immobile ed annullamento quasi ipnotico (e pur cosí lontano dalla forza essenziale dell’Infinito) – e quasi contraddittorio rispetto alla ricerca di un piacere sensibile e vitale ristoratore di vitalità e freschezza – e passi e quadri cosí letterari e poco funzionali da richiamare sin troppo vistosamente i loro punti d’appoggio (il Parini del Giorno e il Pindemonte delle Quattro parti del giorno) o momenti autobiograficamente piú vivi, ma scossi da una drammaticità brusca e anch’essa troppo letterariamente scoperta (cosí il verso alfieriano «e rimedio non resta altro che il ferro») sí da costruire macchie male amalgamate in un tono e linguaggio unitario e da ridurre ad anticipi, ancor fragili e incerti, spunti di sensibilità (l’evocazione del dolce tempo giovanile della speranza, il canto suggestivo di una fanciulla) all’altezza dei canti pisano-recanatesi del ’28-30.

Ugualmente disorganico e incerto, e, d’altra parte, piú febbrile e languido, melodrammatico, nel prevalere di un tono piú apertamente elegiaco, appare il Sogno che, puntando su di un tema leopardiano autentico (il compenso portato alla realtà insufficiente da un sogno amoroso e da una voce che giunge filtrata attraverso la doppia lontananza del sogno e della morte), lo sfuma e lo diluisce sia nel tono troppo blando e dolciastro che priva di forza la risonanza piú profonda anche dei motivi piú schietti della infelicità del poeta e della donna amata e morta (fino alla protesta contro il cielo che «dilettossi... de’ nostri affanni») sia nel troppo chiaro ricalco di toni petrarcheschi del Trionfo della morte o di certo piú moderno elegismo melodrammatico dei Pensieri d’amore del Monti.

Insomma ben si avverte che questa ripresa di poesia «privata» ha in sé qualcosa di incerto, di impersuaso, di oscillante fra un certo grezzo autobiografismo e una letterarietà sin troppo evidente, ed essa ben dimostra lo sfaldarsi di questa prospettiva idillico-elegiaca, che aveva trovato il suo unico e valido risultato nella Sera del dí di festa, nel suo difficile, ma fecondo equilibrio a contrasto ed intreccio di contemplazione e meditazione rasserenante struggente e di sofferto e drammatico sentimento della propria personale esclusione e solitudine.

È infatti in questo piú unitario e dinamico intreccio che il Leopardi poté vincere le difficoltà insite in questa direzione, cosí incerta nella Vita solitaria e nel Sogno, e cogliere un frutto ben interessante della sua esperienza poetica: tanto piú interessante e valido quanto piú ci si rifiuti ad un’operazione distintiva di «poesia e non poesia» alla luce della prospettiva «idillica» che finiva per rompere quel delicato equilibrio insito nella genesi stessa del canto (si ricordi che inizialmente il poeta aveva introdotto la celebre scena iniziale con un «oimè» ben significativo, anche se troppo scoperto) isolando la scena iniziale e i punti piú sensibili della poesia dalle irruzioni «autobiografiche» scomposte e smaniose, dal grido dell’ubi sunt, e cosí perdendo di vista le ragioni che giustificano tutta la poesia e il profondo valore di essa come conoscenza-espressione di una situazione a fondo drammatico, condotta fino alla scoperta della caducità e vanità di tutte le cose attraverso un ductus sottile, ma saldissimo e intero.

Viceversa la stessa celebre apertura («Dolce e chiara è la notte...») è intimamente sorretta e giustificata dal suo rapporto di attrazione di calma e serenità (come la donna che riposa nelle sue «chete stanze») verso il poeta tormentato dalla sua esclusione da quella zona inattingibile se non nel desiderio (una ipotesi che per lui non vale e che pure lo attrae e lo affascina) come è escluso dalla festa invano attesa, per lui non fatta, e da cui – in una seconda parte altissima e profonda – egli ricava, attraverso l’ascolto del canto dell’artigiano e del suo dileguarsi nella notte, la scoperta dolce-struggente della caducità che coinvolge tutto e tutti, annullando il primo contrasto ed intreccio e creandone uno piú sottile e profondo, esaltato nel grido dell’ubi sunt (dove sono gli antichi popoli attivi e famosi, dimenticati nel mondo presente e nella sua inerte quiete?), e poi riproposto nella voce perfetta, melodica e drammatico-elegiaca nell’aggiunta della componente del ricordo e dell’esperienza. La simile situazione del fanciullo, ansioso della festa attesa e poi deluso e sollecitato dal canto notturno, nel suo vibrare e degradare lentamente fino al completo dileguarsi (con un recupero ben significativo di certa sentimentalità idillico-elegiaca del preromanticismo che già aveva – soprattutto nei Canti di Ossian – tentato un simile procedimento sperimentale-conoscitivo-poetico), riporta infatti ad una simile intuizione infantile (e ancora inconsapevole) della caducità di tutte le cose, e ad un simile sentimento dolce-struggente, in cui l’intreccio idillico-elegiaco, impostato piú apertamente all’inizio del canto, trova una sua fusione di estrema finezza e perfezione poetica, ben corrispondente al massimo ricavo della crisi personale e storica che il Leopardi vive fra desiderio di vita, compenso di piaceri dell’immaginazione, sentimento dei «benefici» della natura e della propria esclusione da quelli.


1 Tutte le op. cit., I, p. 363.

2 Ibidem.

3 Tutte le op. cit., I, p. 364.

4 Ibidem.

5 Fondamentale la lunga meditazione del luglio 1820 (Tutte le op. cit., II, pp. 79-82), che raccorda il piacere dell’infinito al tema centrale del piacere e della felicità «come massimo fine della natura umana». E basti qui richiamare di questa lunga e complessa meditazione alcuni passi piú interessanti per noi. «Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e piú materiale che spirituale. L’anima umana (e cosí tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perché ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito ma solamente termina colla vita». Sicché (e si noti come il Leopardi da buon sensista insista su di una causa piú materiale che spirituale e cosí ci allontani da una interpretazione di tipo religioso e spiritualistico del sentimento e del piacere dell’infinito) l’uomo, non trovando la felicità nei singoli piaceri, si volge soprattutto all’idea dell’infinito servendosi della sua facoltà immaginativa che gli offrirà il compenso di visioni illimitate nello spazio e nel tempo. E tanto meglio se l’illimitato sorgerà per contrasto dalla vista di una cosa reale e limitata. «La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario». Alla base letteraria dell’Infinito si possono ricordare, fra molti altri, certi brani delle Notti di Young o di Gessner o certe espressioni di Angelo Mazza («gli interminati aerei campi» o un sonetto sull’eternità culminante in questi versi: «D’affetti intanto e di pensieri ondeggio / quando il confin che circoscrive il dito / de l’Eterno m’arresta e qui vagheggio / in caligin l’idea dell’infinito») e soprattutto si deve ricordare la pagina della Vita alferiana sul soggiorno a Marsiglia: «Mi era venuto trovato un luoghetto graziosissimo ad una certa punta di terra... dove sedendomi su la rena con le spalle addossate ad uno scoglio ben altetto che mi toglieva ogni vista della terra da tergo, innanzi ed intorno a me non vedeva altro che mare e cielo; e cosí fra quelle immensità abbellite anche molto dai raggi del sole che si tuffava nell’onde, io mi passavo un’ora di delizie fantasticando». Ma mentre la pagina alfieriana suggeriva la limitazione «alle spalle» (cosí genialmente ribaltata dal Leopardi in avanti), il sonetto del Mazza prospettava un’idea religiosa lontanissima dalla concezione del componimento leopardiano.

6 Si ricordi ancora la già citata definizione leopardiana degli idilli pensati nel ’28 come «esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del proprio animo».

7 Si veda l’attacco alle «mistiche fanfaluche» degli studenti tedeschi romantici e liberali (Zibaldone, Tutte le op. cit., II, p. 58).

8 Cfr. Zibaldone (Tutte le op. cit., II, p. 32 e p. 36 e, per l’importanza delle letture, p. 42).

9 Piú tardi il Leopardi verificherà la pochezza del Mai come uomo e come filologo, quando lo frequenterà a Roma nel ’22-23.

10 Lettera al Brighenti del 28 aprile (Tutte le op. cit., I, p. 1099).

11 L’attenzione del governo austriaco nei confronti del Leopardi e delle sue opere pericolose sia da un punto di vista religioso che da un punto di vista politico si prolungò fin dopo la morte del poeta, fino ad interessare direttamente lo stesso Metternich fra il ’41 e il ’45, anche se questi fu mosso da una comunicazione che il Nunzio apostolico presso la corte di Vienna gli fece, d’ordine del Vaticano, recapitare il 19 febbraio 1841, allo scopo di impedire la pubblicazione «in qualche paese della Germania» di uno «scritto irreligiosissimo (di cui ignorasi con precisione il titolo) uscito dalla penna del fu conte Leopardi, noto anch’esso (come il Ranieri, possessore di quello scritto) per simili difetti di liberalismo e di miscredenza, degenere affatto dagli ottimi e sacri princípi professati dal suo genitore conte Monaldo», «pubblicazione al sommo dannosa e per la tranquillità dei popoli e per la quiete delle coscienze» (per tutto questo episodio si veda ora lo scritto di Giovanni Quarantotti, Metternich contro Leopardi, in «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze ed arte», CXXVIII, 1969-70, pp. 763-770).

12 Dedica della canzone, in Tutte le op. cit., I, pp. 55-56.

13 Zibaldone, in Tutte le op. cit., II, p. 35.

14 Cfr. lettera al Giordani del 19 novembre 1819 (Tutte le op. cit., I, p. 1089).

15 Si veda il pensiero del 23 agosto 1821 in Tutte le op. cit., II, p. 438 (da cui tolgo la parte citata nel testo) e quello del 20 febbraio dello stesso anno, pp. 211-212, che significativamente collega il ricorso dell’«uomo disingannato, stanco, esperto, esaurito di tutti i desiderii» alla solitudine con la perdita della «prima energia della vita sociale» che alimentava una volta le generose illusioni.